A Georgia story
Secondo un’antica leggenda, i soldati georgiani custodivano un tralcio di vite all’interno delle loro armature, così, se fossero morti in battaglia, una vite sarebbe germogliata dai loro cuori.
Il nostro viaggio nella culla del vino racconta a ogni angolo, in ogni sguardo e durante ogni pasto il desiderio irrefrenabile da parte dei georgiani di occupare un posto d’eccezione sulla scena vinicola mondiale. In questa terra, già 8.000 anni fa si produceva vino. A guidare i viticoltori dal cuore artigianale è un’anima forte, generosa e romantica.
La fermentazione avveniva grazie a grandi anfore di terracotta chiamate qvevri. Ed è proprio all’interno degli antichissimi vasi che, nel 2015, gli archeologi hanno scoperto il residuo di una preistorica vinificazione confermando quello che ogni georgiano sapeva da tempo: ovvero di essere l’inventore del nettare che poi fu di Bacco, ma che oggi, a occidente, tutti chiamiamo con un termine di probabile origine georgiana, ghvino.
Grazie a un clima perfettamente adatto alla coltivazione della vite, gli antichi abitanti della Georgia posero le basi di una viticoltura che ben presto divenne parte di una cultura millenaria e forza motrice dello sviluppo di una civiltà le cui tracce non sono mai andate perdute, nonostante le continue e numerose invasioni che hanno minacciato questa terra di confine fino ai nostri giorni.
Ovunque nel nostro viaggio georgiano abbiamo incontrato quelle che la Master of Wine Lisa Granik nel suo libro The Wines of Georgia definisce: “le macerie delle spettrali cantine industriali sovietiche”. Nessun invasore è però riuscito a scalfire l’anima del Paese, alimentando al contrario uno spiccato orgoglio nazionale. Anche il vino georgiano ha resistito alla modernità grazie all’ostinazione e all’orgoglio di un popolo che ha intrecciato la sua vita alla vite, diventata simbolo di resistenza, rinascita e prosperità.
Non è un caso che la Georgia sia “l’unico Paese al mondo in cui i metodi di vinificazione sviluppati 8.000 anni fa non solo non sono mai stati abbandonati, ma rimangono per molti versi le migliori pratiche”, ha scritto il giornalista Andrew Jefford sul Financial Times.
All’interno della cantina detta marani, i qvevri vengono ancora interrati e usati per la produzione di vini bianchi e rossi con la tecnica della prolungata macerazione, ovvero il contatto delle bucce dell’uva con il succo, conferendo ai vini provenienti da uve a bacca bianca un colore ambrato, tendente all’arancione, emblema della produzione vinicola georgiana, ma anche di un modo di fare vino artigianale e non standardizzato. Tali vini ambrati, altrove ribattezzati “orange wines” sono caratterizzati da complessità, profondità e, soprattutto, da una trama tannica solitamente impercettibile nei classici vini bianchi.
La culla del vino è oggi la paladina di una ritrovata tendenza legata alla naturalità del processo di vinificazione che la sta portando a essere una delle destinazioni più in voga tra gli enofili. Nel 2013 la vinificazione nei qvevri ha ottenuto il riconoscimento UNESCO come “Patrimonio culturale immateriale dell’umanità”, mentre dal 2021 le tipiche anfore godono dello status di Indicazione Geografica Protetta (IGP), che stabilisce legalmente la Georgia come luogo di origine e ne codifica la forma, la capacità, le materie prime e il metodo di produzione; è stato il primo prodotto non alimentare a essere classificato IGP.
Inoltre, i georgiani sono riusciti a tutelare e a preservare dall’estinzione oltre 550 varietà d’uva, continuando a produrre vino nel segreto dei marani che si nascondono in moltissime case, tanto che a oggi si contano oltre 100.000 cantine familiari in tutta la nazione.
Il viticoltore qui è considerato un custode della storia, un combattente che lotta da secoli per proteggere la sua eredità e un archeologo che scava nelle viscere della terra per piantare viti e anfore e per riportare alla luce del sole le sue tradizioni. Così il vino si fa rito, visceralità e al contempo spiritualità: una rinnovata autenticità di tradizioni millenarie.
Dalla guerra alla festa, dai miti ai riti, il nostro viaggio nella culla del vino si conclude con la partecipazione a un Supra, una festa ricca di pietanze di ogni genere e, ovviamente, di ottimo vino. E così, un brindisi dopo l’altro, accolti da un popolo incredibilmente ospitale e caloroso, il vino georgiano ha cominciato a scorrere anche nelle nostre vene. Un viaggio tutto da assaporare, tra antichità, identità e nuova autenticità.
Family Winery
Il manifesto: le persone, il progetto, l’ospitalità
Nella zona di Imereti, anche conosciuta come “la piccola Toscana”, sono molti i punti di contatto tra la tradizione georgiana e lo stile italiano. Con Kutaisi come capitale, l’Imereti della Georgia occidentale è la seconda regione vinicola più produttiva e svolge un ruolo altrettanto importante nella conservazione del patrimonio vinicolo. Ricca di piccole e autentiche cantine, Imereti è il luogo perfetto per scoprire la Georgia del vino.
Procedendo verso il Mar Nero, il clima diventa più fresco e umido rispetto alla parte orientale del Paese e i vini assumono caratteristiche di freschezza, leggerezza ed eleganza, equilibrati da una gamma di sapori e di profumi profondi e vibranti. Qui una giovane famiglia georgiana ha scelto di tornare alle loro origini e di avviare un nuovo progetto di vita guidata dalla necessità di onorare l’immenso patrimonio vitivinicolo georgiano e ispirati dalla condivisione di vini e momenti genuini. Ruralità e convivialità rappresentano il vero lusso delle piccole cose.
I georgiani, come gli italiani, hanno coltivato non solo la vite, ma anche una cultura del vino che permea storia, letteratura, momenti di festa e di vita quotidiana. Il desiderio di condividere nel modo più autentico e profondo le proprie tradizioni è irrefrenabile. La creazione di un nuova cantina è la conferma di una riappropriazione di identità oggi cantata in tutto il mondo attraverso l’export, ma anche l’enoturismo, un’industria sempre più fiorente nel Paese.
Diverse cantine stanno adottando lo spirito e le tecniche georgiane per la produzione dei loro vini. Sul territorio italiano al confine con la Slovenia, un gruppo di produttori ispirati dal lavoro di ricerca di Josko Gravner, negli ultimi decenni hanno avvicinato i consumatori alla conoscenza di una viticoltura consapevole tramite l’esportazione degli antichissimi metodi di vinificazione in anfora.
Ma la Georgia sta esportando nel mondo anche una visione femminile del vino: una femminilità che parte dal concetto di creazione e di unione di famiglia, ma soprattutto come incarnazione di ideali di forza, resistenza e natura. Anche la colossale statua Kartlis Deda, o Madre Georgia, che domina dall’alto la capitale Tbilisi, tiene in una mano una spada e nell’altra una coppa di vino, simboli di un popolo combattivo e caloroso dove la donna è, da sempre, simbolo di libertà.
Oltre a essere una delle lingue più antiche al mondo, il georgiano ha una particolarità non casuale: non ha distinzione di genere, anche i pronomi sono neutri. Il suo suono è inoltre distintivo almeno quanto la scrittura dalle lettere arrotondate simili a tanti piccoli viticci, ovvero i riccioli con i quali la vite si aggrappa al suo sostegno.
Allo stesso modo, aggrappati a una tradizione di Paese, ma soprattutto di famiglia, il nuovo brand sarà caratterizzato da una produzione di vini millenari ma dal sapore di una storia appena cominciata e ancora tutta da scoprire attraverso un progetto di accoglienza moderno, unico ed esperienziale. Georgia e Toscana si incontrano nella regione di Imereti accomunati dalle verdi e dolci colline che solcano entrambi i territori, ma soprattutto dal senso del bello e della storia che illumina ogni cosa.